Oggi, la legge sull’autonomia differenziata rischia di mettere a rischio il Paese dal punto di vista sociale. Ma noi non ci arrendiamo. Un Paese civile tende ad avvicinare i suoi cittadini. Tende ad offrire loro pari opportunità. E invece le disposizioni della legge Calderoli sull’Autonomia Differenziata creerebbero, se attuate, inacettabili discriminazioni tra i cittadini delle regioni del Centro-Nord e quelle del Sud nei settori della sanità pubblica e l’istruzione, ma anche nel sociale.
C’era una volta la Costituzione che all’articolo 119 menzionava un Mezzogiorno da valorizzare con leggi e risorse speciali. “Cera una volta” perché la riforma costituzionale del 2001 che ha introdotto il federalismo e l’autonomia differenziata per le regioni ha cancellato il termine Mezzogiorno sostituendolo con “territori con minor capacità fiscale per abitante”. Una “rivoluzione” grazie alla quale saremmo stati tutti più felici. Almeno così volevano farci credere a noi meridionali. E qualcuno ci ha pure creduto.
dice il nostro presidente Rafele.
Nel 2001 vivevano trecentomila bambini con meno di tre anni. A centomila di loro, uno su tre, il Consiglio europeo promise che avrebbero trascorso parte della loro giornata in un posto bellissimo con tanti colori e giochi dove avrebbero potuto giocare insieme ad altri bambini per poi tornare a casa a riabbracciare mamma e papà. E visto che l’assenza di asili nido era, insieme alla mancanza di trasporti e di sanità pubblica, il più evidente divario tra nord e sud, l’apertura di asili nido avrebbe dimostrato che il federalismo ci avrebbe davvero resi più felici. Ma il tempo passava e quei bambini crescevamo senza mai entrare in un asilo nido. Andavano in scuole “sgarrupate” senza mense scolastiche, tornavano a casa senza il pulmino comunale e una volta cresciuti capivano che non solo per lavorare, ma anche per curarsi conveniva andare a vivere lontano dalla propria casa, lontani da quei “territori con minor capacità fiscale per abitante”. Lontani da quei territori la cui spesa media pro capite per servizi sociali è pari a 41 euro.
continua Rafele. Puntualmente, ogni anno, spuntano fuori i dati sulla spesa media dei Comuni italiani per i servizi sociali. Ogni anno, esce qualche articolo sui giornali e qualche post di indignazione sui social. Puntualmente, ogni anno, finisce tutto lì. Tanto, a sostituirsi allo Stato, alle Regioni, ai Comuni nell’assistenza alle persone più bisognose, ci sono le Organizzazioni del Terzo settore. Sono loro, noi, a dover far fronte alla “questione meridionale”. Sono loro, noi, a dover “resistere” con i 41 euro pro-capite di spesa sociale dei comuni calabresi contro i 146 della media nazionale, contro i 500 delle regioni più virtuose. È ancora una questione economica, ma è soprattutto una questione morale.
Dopo 23 anni, dunque, la sciagurata riforma costituzionale voluta dalla “sinistra” prende forma con l’approvazione della sciagurata legge sull’autonomia differenziata voluta dalla “destra”. Nessuno si senta escluso. Concetti sui quali non intendiamo far calare l’attenzione nei prossimi mesi, probabilmente difficili, che ci aspettano.
Ma se un sistema che attribuisce risorse alle aree ricche e non a quelle povere in virtù della loro scarsa capacità di spesa e non sul fabbisogno reale riesce, forse, a far quadrare i conti dal punto di vista finanziario, rischia di far saltare il Paese dal punto di vista sociale, dal punto di vista del “capitale sociale” che tende a scomparire nel sud proprio in virtù dell’insufficienza dei servizi, per i servizi scadenti, per la carenza di asili nidi, di trasporti pubblici, per una sanità inefficiente. Sono questi aspetti che allontanano dalla Calabria, dal sud, il capitale umano e con esso i diritti delle persone più vulnerabili e la speranza di un’Italia equa e coesa.
conclude il nostro presidente.